Come racconta Guatelli nel libro Il bosco delle cose, “è stato per molti anni il granaio del vecchio padrone. Per alcuni anni ci hanno allevato il baco da seta e dopo la guerra anche polli da batteria. Per un po’ è stato anche granaio nostro. Le prime cose le ho esposte su tavoli messi addirittura sul grano. Venduto l’ultimo grano, lo spazio è rimasto tutto per il museo. Abbiamo chiamato “operatori” a fare dimostrazioni: fabbri, falegnami, motoaratori, carbonai e anche uomini di spettacolo. E abbiamo dovuto sgombrare il salone per far posto alla gente.
Libero dalle cose che occupavano il pavimento, sembrava infinito, e le cose sulle pareti sembrava si sublimassero. Non posso dire se lo sgomento per il “nulla” sul pavimento fosse dovuto all’abitudine di vederlo pieno di oggetti o se fosse per il vuoto in sé: assieme al piacere che ti davano lo spazio e l’esaltazione delle pareti, c’era anche questo. Ci sono oggetti unici, in terra, funzionali e poetici a un tempo, che però in parte toglierei, se fosse lo spazio per collocarli diversamente: ce ne sono troppi.”
Parlando delle pareti sottolinea che “Di poche… si può dire che siano state fatte una volta e lasciate lì: ce ne sono che nascono felicemente, altre che pur ritoccate e non finiscono di piacere…”
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